(Intervista di Emiliano Ventura)
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È difficile che in una persona si possano sommare diverse professionalità, a Denise Sarrecchia è riuscita questa impresa; essere un’ottima ricercatrice e un ottimo grafico. I suoi libri ne sono un esempio, dal contenuto teoretico importante alla cura grafica per l’immagine e l’impaginazione. Nel 2013 esce Edizioni di Classici. L’illustrazione nell’editoria dell’infanzia, nel 2014 Andersen e la Sirenetta, Iconografia di una fiaba (1873-2013)e nel 2015 l’edizione della fiaba Undine, tutti per le edizioni Arbor Sapientiae.
Intanto vorrei chiederti come nasce l’interesse per le immagini, e, in particolare, per le illustrazioni per l’infanzia. In Italia abbiamo una ricca tradizione ma anche molti pregiudizi che solo recentemente sono stati, in parte, fugati.
L’interesse nasce dall’amore per il disegno che ho avuto fin da piccola. Ho sempre disegnato fumetti (in particolare manga) e, dall’età di undici anni, già immaginavo il mio futuro da fumettista (forse, silenziosamente, anche ora).
Crescendo e formandomi come grafica editoriale, ho gradualmente appreso la grande differenza che c’è tra dei semplici libri illustrati e quelli in cui, invece, narrativa e iconografia diventano una cosa sola, pur essendo due linguaggi molto diversi.
Dalla mia esperienza, non solo di grafica, ma anche di lettrice, credo che testo e immagini debbano riflettersi. Apprezzo e rispetto il valore dell’interpretazione, della soggettività, ma credo sia giusto restituire veridicità artistica alle storie, senza addolcirle o abbrutirle a seconda dello stile che l’artista propone o che il mercato impone.
Perry Nodelman[1], in una sua citazione, rimprovera chi classifica i bambini solo come creature ingenue, allegre, e di conseguenza, chi considera necessario semplificare le illustrazioni da allegare al testo, in quanto semplici portatrici di informazioni che permettono al piccolo lettore di capire le parole. Una concezione che sottovaluta la capacità cognitiva dei bambini, perché naturalmente essi non sono ingenui, né sempre allegri. Senza contare che, con questo modo di pensare, si attribuisce alle illustrazioni la sola funzione esplicativa che le priva di una loro natura indipendente, di una propria fisiologica evoluzione, che invece hanno e che credo sia l’aspetto più affascinante da osservare.
Condivido pienamente quanto hai detto, è la cosiddetta visione adultocentrica. Vorrei cominciare da I classici: nella prima parte parli del fondamentale Orbis Pictus di Comenio, il testo che inizia la pedagogia dell’infanzia legata all’uso dell’immagine; il boemo Comenio è osannato in patria (Repubblica Ceca) mentre da noi non mi sembra che goda della stessa considerazione, eppure parliamo di un ‘gigante’, teologo, filosofo, educatore.
Credo dipenda dal fatto che abbiamo sempre avuto un’educazione troppo nazionalistica. Acquisiamo in una maniera nozionistica bagagli molto importanti che, però, non fanno parte della nostra storia. Sappiamo (a volte) che ci sono, che sono dei “giganti” ma non ci rendiamo conto di quello che hanno significato davvero.
Comenio introdusse il primo libro di testo scolastico in cui le immagini vennero introdotte come sussidio dell’apprendimento, favorendo un tipo di lettura più scorrevole, intuitiva. Purtroppo, a causa della poca libertà di stampa e il controllo totale degli ordini religiosi sulle scuole, la concezione pedagogica di Comenio incontrò molte limitazioni in Italia e, di conseguenza, accadde lo stesso alla diffusione della sua opera.
Tu dedichi molto spazio a Pinocchio e ai suoi illustratori, arrivi fino alla più recente attualità da Mazzanti a Jacovitti, tratti a lungo anche la storia dell’animazione Disney del film Pinocchio soffermandoti sulle perizie artigianali e sulle novità tecniche che il film presenta. Non tralasci le critiche mosse al film Disney che risulta poco aderente all’originale di Collodi. Molti ritengono che sia stata una versione banalizzata della fiaba. Puoi tornare sull’argomento?
Cercherò di rispondere in maniera neutrale, perché io AMO Walt Disney, un rivoluzionario che ha creato dal niente un firmamento di opere d’arte capaci di far sognare il mondo, dall’infanzia all’età adulta. Tuttavia non nego che quello che è stato fatto a Pinocchio, come a molte altre pellicole, sia stato snaturarlo, attribuendogli un’anima meno complessa di quella pensata da Collodi e, come ho tenuto a ribadire in tutto il libro, credo che l’importante per l’artista sia cercare di avvicinarsi alla verità della storia, e non plasmare quest’ultima nella forma che egli vede. Deve essere una sorta di Alias iconografico, cosa che Disney non ha fatto, ma lui era partito da un presupposto diverso. Volle trasformare Pinocchio, togliergli quell’aria inizialmente arrogante e da saputello, facendolo diventare un bambino dolce e innocente. Forse è una debole giustificazione verso chi ha manipolato la natura di un classico, ma come si può condannare un sognatore? Qualcuno che ha introdotto nella memoria di molti un’immagine così candida che, rivedendola, è ancora capace di farci ridere e piangere.
La vera responsabilità credo sia da ricercare nella scarsa cura che viene data alla scelta delle immagini per i libri dell’infanzia. Se illustratori come Mazzanti, Chiostri, Mussino, fossero rimasti nell’editoria come iconografia di riferimento e non come “mostri sacri” antiquari ai quali guardare con nostalgia, forse ora, nell’immaginario collettivo, il burattino disneyano non sarebbe stato così predominante, ma capisco che le leggi del mercato (soprattutto quello cinematografico rispetto a quello editoriale) sono un’altra calamità a cui è difficile resistere, soprattutto in virtù del fatto che i bambini di oggi non sono quelli di ieri, e forse, per loro, anche il burattino di Walt sta scendendo mestamente dal piedistallo.
Il tuo testo sulla Sirenetta è bellissimo. Gran parte delle immagini che usi sono state scattate da te in un viaggio a Copenaghen; il libro sembra una testimonianza di una relazione privilegiata tra te e Andersen o tra te e la fiaba in oggetto. Puoi tornare sull’argomento?
Andersen e La sirenetta (2014)
In effetti, ho un legame “di sangue” con questo libro.
Ero già stata a Copenaghen nel 2013 e me ne innamorai subito. Ho voluto ritornarci l’anno successivo per scattare delle foto da introdurre nel libro[2].
Sento di dover ringraziare anche il Museo H. C. Andersen (Odense) che mi ha concesso l’autorizzazione a pubblicare immagini scattate lì e anche per la disponibilità dimostrata nell’accogliere una copia del libro nel loro bookshop. Purtroppo, in molti altri casi, ho trovato una chiusura ingiustificata di questi enti culturali che tendono a tenere per sé un patrimonio che dovrebbe poter essere condiviso da tutti (sempre nel rispetto e nel riconoscimento dei diritti di proprietà delle fonti stesse). Soprattutto perché di fronte ad un aumento così spaventoso di contenuti poco culturali e alla crescente insensibilità del pubblico, sempre più utente e sempre meno lettore, si dovrebbe riservare un’apertura maggiore nei confronti di coloro che si mostrano desiderosi di accedere a fonti poco note, per arricchire i propri approfondimenti.
Il mio rapporto con Andersen è speciale. Lo considero come un amico immaginario, quel signore un po’ goffo che accompagna i bambini per tutta l’infanzia, tenendoli per mano, per poi veder lasciare quella stretta, rimanendo sempre lì, nell’angolo, aspettando il momento in cui quel bambino rinchiuso nell’uomo torni da lui e ascolti di nuovo le sue storie. Purtroppo però, rimane un’ombra per chi conosce solo lo scrittore e non l’uomo e questo perché tra noi e “loro”, i grandi autori, i “giganti”, c’è sempre una grande distanza, che non viene solo dalla morte, ma anche dal fatto che ci hanno sempre insegnato a vedere in prevalenza quello che hanno rappresentato e non quello che sono stati.
Senza addentrarsi veramente nella sua vita, oltre i lunghi o brevi riassunti che ne vengono fatti, è difficile considerare Andersen “uno di noi”. Invece, credo sia molto più produttivo, oltre che umanamente impagabile, avere una sorta di dialogo con l’autore che stiamo “intervistando”. Questo, almeno, è l’approccio che mi piace avere nei miei saggi. Si riscoprono grandi artisti in una luce diversa, e soprattutto si conoscono nella loro più vulnerabile umanità, nelle loro ambiguità; ci si accorge di quanto siano simili a noi in tutte le imperfezioni, le irrazionalità, le fobie, le speranze, i sogni e addentrandosi sempre di più, a volte, si arriva a pensare: “se fosse ancora vivo, saremmo diventati amici”.
La vita di Andersen mi ha commosso, perché è una storia fatta di povertà e di una sofferta diversità che gli costò l’emarginazione e lo scherno per gran parte della sua vita, ma è soprattutto una storia di riscatto e coraggio, il coraggio di affrontare la vita nonostante la miseria, il bullismo e l’assenza di un amore che non aveva mai smesso di cercare.
Probabilmente leggere una storia come questa, oggi, fa ancora più effetto, in un mondo dove la speranza spesso si confonde con l’illusione e dove la capacità di ascoltare è dote di pochi.
Della sirenetta, invece, sono perdutamente innamorata. Anche la sua, come quella Andersen, è una storia di coraggio, per non essersi arresa di fronte ai limiti della propria natura e aver combattuto per un amore che era destinata a non possedere.
In realtà, La sirenetta fu una sorta di lettera d’amore, una delle più profonde mai scritte da Andersen, ma all’epoca svelare il destinatario di quella storia sarebbe stato sconveniente, perché si trattava di un uomo, Edvard Collin, il figlio del suo protettore.
Per Andersen, la sirenetta è l’immagine dell’amore impossibile; egli si immedesima in lei, in quella lingua tagliata, in quella coda di pesce, in quello scoglio paralizzante da cui non poté fuggire e credo che riuscire a trasformare un dolore così atroce nella bellezza di una leggenda, divenuta eterna, sia la forma più pura di eroismo.
Perché un testo sulla fiaba Undine? Dove nasce l’interesse che ha portato a questa nuova edizione? Dal testo narrativo o dalle immagini?


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Entrambi. Mi sono avvicinata a Undine tramite Andersen, scoprendo che era stata la fiaba a cui lui si era ispirato per comporre La sirenetta. Da lì è nata la mia curiosità. Leggendo Undine ne sono rimasta affascinata. Sono due fiabe diverse ma animate dallo stesso desiderio di amore e di accettazione. Ho iniziato a fare ricerche e mi sono resa conto che l’ultima edizione sul mercato risaliva al 2006, e allora non ho esitato nel proporre un’ulteriore edizione.
Undine è un’altra di quelle storie immortali che meritano di essere tenute in vita attraverso pubblicazioni che propongono nuovi spunti di riflessione e prospettive differenti dalle quali guardare la natura del mito. Infatti, in questa edizione di Undine, ho tenuto conto di vari aspetti:
letterario, in quanto la mia premura è stata quella di conservare la ricercatezza linguistica dell’edizione ottocentesca a cui ho fatto riferimento per riproporre l’opera[3];
- iconografico, per aver scelto Arthur Rackham, il più importante esponente della «Golden Age of Illustration» (periodo vittoriano) tra la rosa degli illustratori della fiaba, di cui si può solo che ammirare la raffinata fedeltà delle immagini alla storia, e non parlo delle azioni, ma dello spirito con cui Rackham ha concepito Undine e il background. Inoltre, ho voluto accogliere nel libro un contributo proprio sull’artista, «L’arte di Arthur Rackham. Ninfe a confronto: Undine e La sirenetta»[4], nel quale traccio un breve percorso biografico e commento le illustrazioni di Undine, confrontandole con quelle de La sirenetta.
- grafico, per essermi ispirata all’impaginazione dell’edizione del 1909, sempre illustrata da Arthur Rackham, nella quale testo e immagini si intersecano armoniosamente, dove il dettaglio decorativo si fonde con la narrazione e dove si ritrova familiarmente l’atmosfera romantica del libro di fiabe di una volta. Inoltre, ho ritenuto importante rifarmi alla copertina di quell’edizione per crearne una nuova, adattabile all’editoria odierna ma senza rinunciare a rendere omaggio a quell’editoria di pregio da cui non si finisce mai di imparare.
- scientifico, in quanto l’edizione propone un estratto del trattato di Teofrasto Paracelso, Sugli esseri elementari, gnomi, ondine, silfi e salamandre, per approfondire l’origine di queste misteriose creature.
Nel capitolo finale di Undine, tratti dell’illustrazione di Arthur Rackham e poi metti in parallelo le due ‘ninfe’, la Sirenetta e Undine. Puoi spiegare questo parallelismo?
Perché non si può non notare la loro similitudine, ma c’è da fare una distinzione, ovvero il punto di vista letterario e quello artistico, che nell’articolo ho tenuto a spiegare.
Dal punto di vista letterario, la sorellanza è palpabile: entrambe incomplete, alla ricerca di un’anima, cacciatrici di amore, privilegiate prede di una solitudine desolante. Entrambe costrette all’esilio, costrette a una vita senza amore.
La dinamica è diversa ma il destino è simile, con un’unica ma enorme differenza nei risvolti del drammatico epilogo: la sirenetta perde il suo amore e, destinata a diventare schiuma del mare, riuscirà, invece, a salvarsi, tramutandosi in una delle figlie dell’aria, avendo il compito di lenire i dolori suoi e quelli del mondo, guadagnando così l’immortalità. Molto più amaro il finale di Undine, costretta dalla profezia ad uccidere il suo cavaliere per averla tradita, e con un bacio rubargli la vita e tornare negli abissi, intrappolata per sempre nel ricordo di un amore fragile.
Nei disegni di Rackham che ritraggono Undine, tutto questo si avverte, il dolore muto di cui si nutre e si consuma l’affascinante ninfa, in una tavolozza di colori autunnali intervallati a tinte più fredde, contorni netti e sinuosi che ricalcano presagi, vulnerabilità e passioni di un’indiscussa protagonista.
Nella raffigurazione della sirenetta, ho riscontrato una diversa aderenza: una manciata di illustrazioni in bianco e nero a campiture piatte, dallo stile quasi fumettistico, nelle quali ritroviamo un personaggio più esemplificativo che evocativo. Una sirenetta che dovrebbe avere quindici anni, si presenta in questi ritratti come una donna dal corpo prematuramente botticelliano, adornata da un contesto liberty puramente decorativo, che a mio avviso non aiuta ad individuare l’anima della storia ma si mostra come accessorio ornamentale.
Per come ho interiorizzato la lettura de La sirenetta, e in virtù di quello che ho scoperto sul retroscena della fiaba, non posso che aspettarmi di più. Per quanto ami questo artista, la immagino diversa da come Rackham l’ha dipinta. La immagino introversa, determinata, profondamente riservata e schiva… inarrivabile, ma inesorabilmente innamorata. Dallo sguardo sfuggente e dalle forme inafferrabili.
…In fondo, nessuno ha detto che sarebbe stato facile!
La sirenetta, porto di Copenaghen, di Edvard Eriksen.
Vorrei chiederti di spiegare cosa sia Il calamaio d’oro, da quel che ho capito va oltre l’essere solo una collana editoriale, sembra un progetto più articolato.
Hai ragione. Mi è difficile concepirlo come un “progetto”, piuttosto come una “visione” e ciò che posso fare è confidarti quello che vedo.
Guardando il piano di collana de «Il calamaio d’oro», mi viene in mente una piccola libreria antica, nascosta in una delle stradine del centro. Una di quelle librerie in cui si respira odore di carta e di nascondigli segreti, di giocattoli abbandonati in soffitta e scrigni di legno chiusi da un’eternità.
Non sarebbe una libreria affollata e chiassosa ma un piccolo ritrovo dove chi varca la soglia sa apprezzare il valore del silenzio, un silenzio nel quale ascoltare tutte le avventure racchiuse in quelle pagine che sussurrano al cuore del “vero credente” ma che tacciono a chiunque altro.
È un luogo prezioso, una sorta di giardino segreto, dove non tutte le storie possono entrare, dove gli autori delle storie si conoscono davvero, dove non esistono le leggi di mercato o le strategie di marketing ma solo l’amore per i libri e chi si imbatte in questa libreria, annusa immediatamente l’odore di qualcosa di antico, di raro, di inesplorato che deve essere riesumato. Il lettore de «Il calamaio d’oro» è una sorta di archeologo dei libri, che non si accontenta di sapere che ha tra le mani un classico ma vuole scoprire la raffinata ragnatela che vi si trama dietro le quinte. Questo lettore è qualcuno che sa immaginare come Anna dai capelli rossi, che sa sentire il Natale come le sorelle March, che entra estatico nel visibilio iconografico delle illustrazioni vittoriane, che riconosce l’attendibilità di un ritratto rispetto alla storia che è sotto i suoi occhi… e non perché debba essere erudito, semplicemente deve amarli, deve credere nei libri come in un’amicizia infantile, sente commozione per ciò che è stato dato alla luce, è grato per quel colpo di fulmine che spesso lo possiede e che non lo lascia andare fino a quando quel libro non sarà suo.
J. D. Salinger affermò: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che vuoi».
Ebbene sì, è questo quello che sento quando leggo il piano di collana de «Il calamaio d’oro». Una collana che racconta “a puntate” la storia dell’illustrazione nella sua poliedricità, evitando un taglio manualistico ma cercando sempre uno spunto inesplorato e innovativo su cui soffermarsi, monografie su artisti di importanza mondiale ma introvabili in Italia perché editi dall’editoria estera. Come ad esempio, la suggestiva e ammaliante corrente artistica della Golden Age of Illustration, nata in America intorno al 1880 e propagatasi poi in Europa; la collana ha accolto nel suo catalogo artisti come John Tenniel, Howard Pyle, Arthur Rackham, Edmund Dulac, Kay Nielsen e molti altri in un’analisi approfondita sulle illustrazioni ottocentesche e contemporanee della fiaba de La sirenetta, di H. C. Andersen (vedi il capitolo II.2. «Golden Age of Illustration», in Andersen e La sirenetta. Iconografia di una fiaba (1873-2013), Roma 2015), della ninfa Undine, di Friedrich de La Motte-Fouqué (vedi il capitolo «L’arte di Arthur Rackham. Ninfe a confronto: Undine e La sirenetta», in Undine, Roma 2015), dei classici dell’infanzia (vedi cap. V.3. «I padri di Alice: John Tenniel e Lewis Carroll», in Edizioni di classici. L’illustrazione nell’editoria per l’infanzia, Roma 2013, II edizione 2015), o la riedizione di illustrazioni di fine Ottocento per i libri di fiabe (Once Upon a Time. Fiabe dal primo Novecento inglese, disegni di Katherine Cameron, Roma 2014), e così via tanto altro.
Mi piacerebbe se per tutti coloro che leggono «Il calamaio d’oro», esso potesse essere un luogo sicuro in cui rifugiarsi, un posto appartato dove allontanarsi dal rumore del mondo, dove le storie che si leggono prendono vita, come ne La storia infinita, un luogo in cui la fine di una storia è soltanto il principio di un nuovo inizio, di una catena che proprio i lettori creano, un legame tra questi sognatori sperduti che credono nella letteratura, nel valore dell’arte come metafora della vita e come un motivo per continuare a far crescere la catena, trasformandola in un ponte tra le anime.
Il lavoro fatto per Pinocchio lo riproponi anche per Alice nel Paese delle Meraviglie, alla storia del testo unisci la storia delle immagine che lo hanno arricchito; come evolve e come si arriva all’immagine classica di Alice che tutti conosciamo? Nelle prime edizioni l’immagine di Alice è diversa.
È vero, è diversa… o forse siamo portati a dire che lo fosse perché la confrontiamo con l’immagine più celebre, ovvero quella di Walt Disney. In realtà, fu Walt ad essersi ispirato all’immagine originaria di Alice disegnata da John Tenniel (Londra, 1820-1914), celebre pittore, illustratore e vignettista inglese, che creò un richiamo iconografico universale per la rappresentazione della vera Alice, un’icona di partenza presente nella maggior parte delle edizioni: la bambina bionda dai capelli lunghi, con il vestitino blu pallido rivestito di un grembiule bianco.
Come sappiamo, però, l’eroina di Carroll nasce da Alice Liddell, figlia dell’amico Robinson Duckworth, alla quale dedicherà la storia e regalerà il manoscritto originale nel Natale del 1864. La Liddell era una bambina bruna, i capelli corti con la frangetta e un viso vispo.
A questo punto, Alice direbbe:
«So chi ero quando mi sono svegliata stamattina, ma da allora devo essere cambiata diverse volte».
Da sinistra: Alice di John Tenniel, Alice Liddell, Alice di Walt Disney.
E avrebbe ragione. Carroll aveva già chiaro nella sua mente un identikit, infatti, inviò a John Tenniel una fotografia di Mary Hilton Badcockpour per trarne un modello da seguire, ma l’artista si rifiutò, consegnandogli, per tutta risposta, un ritratto alquanto sproporzionato della bambina (la testa troppo grande e i piedi troppo piccoli).
Dal punto di vista stilistico, i libri di Alice rispondono perfettamente al loro periodo di appartenenza, l’epoca vittoriana, un’epoca nella quale eleganza e sperimentalismo prendono il sopravvento nell’arte e, tornando alla nostra protagonista, in quelle illustrazioni, dove si riconosce un’Alice classica e sobria.
L’immagine della bambina che cade nella tana nel Bianconiglio è intramontabile e intorno all’enigma che avvolge le miriadi di interpretazioni narrative, si accompagna da sempre il bisogno inconscio di dare un volto alla piccola eroina. Anche in questo caso, non mancano i pretendenti artistici.
In Edizione di classici, l’analisi sull’iconografia di Alice inizia con un excursus sulle copertine delle edizioni italiane tra il 1952 e il 2012, mettendo in evidenza la variegata quantità di stili e di interpretazioni artistiche presenti nella costruzione di un’icona così difficile da indovinare, per poi indagare gli spunti utilizzati da Carroll nell’ideazione dei suoi personaggi (molti di essi ebbero un corrispettivo nella realtà) e terminare con la trasposizione disneyana che chiude un cerchio nel quale si aggiudica il primato iconografico di Alice nell’immaginario collettivo, ma senza riuscire a spegnere la visione di quell’immagine senza tempo che in origine diede la vita a tutte le altre.
Ad oggi, continuano ad essere pubblicate edizioni illustrate da John Tenniel (le ultime nel 2015), un artista che riuscì a rendere immortale l’immagine di quella bambina dai capelli biondi e a sconfiggere il tempo scandito dalle epoche e dalle correnti artistiche. Anche se in Alice, il concetto di tempo è relativo…
Alice: Per quanto tempo è per sempre?
Bianconiglio: A volte, solo un secondo.
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[1] University of Winnipeg, Canada.
[2]Le foto presenti nel libro sono state scattate alla statua di Hans Christian Andersen (Raadhuspladsen), alla scultura in metallo della sirenetta (porto di Copenaghen), al museo di H. C. Andersen (Bangs Boder) e alla sua casa d’infanzia (Munkemøllestræde).
[3]Undine. Racconto del Barone Friedric de La Motte-Fouqué, con un estratto di Teofrasto Paracelso, Sugli esseri elementari, gnomi, ondine, silfi e salamandre, traduzione di G. B. Bolza, Milano, A. F. Stella e figli, 1836.
[4] L’articolo è la rielaborazione di un capitolo del volume di Andersen e La sirenetta. Iconografia di una fiaba (1873-2013), con introduzione di M. Panetta e in appendice la prima traduzione dall’originale danese de La sirenetta di H. C. Andersen (1941).